Carnevali storici di Sicilia

CARNEVALI STORICI DI SICILIA

Nel viaggio in cui ci accompagna Mezzojuso Ecotour una tappa molto importante dal punto di vista culturale è quella dedicata ai Carnevali Storici di Sicilia. Un progetto nato circa dieci anni fa, su iniziativa del Comune di Mezzojuso poi condiviso con altri comuni dell’isola, con lo scopo di far conoscere e tutelare alcune rappresentazioni carnascialesche che si svolgevano e si svolgono ancora oggi in alcune province della Sicilia e che da secoli si sono contraddistinte per la loro storia e la loro antica tradizione. Tra queste: Il Mastro di Campo di Mezzojuso (PA); U Nannu e a Nanna di Termini Imerese (PA); il Gioco del Maiorchino di Novara di Sicilia (ME); i Mesi dell’anno di Rodì Milici (ME); la Sfilata dell’Orso e la Corte principesca di Saponara (ME); ecc. Oggi grazie al progetto Mezzojuso Ecotour nasce la prima mostra permanente dedicata ai Carnevali storici di Sicilia. Uno spazio all’aperto, di pertinenza del Castello comunale, riqualificato e arredato con delle originali opere, affiancate pannelli tematici, che ripropongono le figure più importanti dei carnevali.

Saponara (Me)

La pantomima dell’Orso e della Corte Principesca
La pantomima dell’Orso e della Corte Principesca è una delle azioni spettacolari legate al Carnevale che ancora oggi si rappresentano in Sicilia con particolare partecipazione collettiva, nel segno della memoria di antiche tradizioni. In specifico il rito carnevalesco di Saponara si collega a un evento effettivamente accaduto nel ‘700 all’epoca del Principe Domenico Alliata di Giovanni, Signore di Saponara e delle “terre” del suo comprensorio. La tradizione popolare ha rivestito di leggenda l’antico episodio che racconta di un orso che minacciava l’abitato di questo piccolo centro montano con pericolose incursioni. Dopo avere inviato le proprie guardie a caccia dell’orso, il generoso Principe riuscì a far catturare la belva e a mostrarla a tutta la cittadinanza effettuando personalmente un lungo giro per le strade insieme all’intera corte. Da qui nasce la tradizione di riproporre, in occasione del Carnevale, un vero e proprio cerimoniale in forma di sfilata con la partecipazione di numeroso seguito di paesani, contadini, pastori e boscaioli. La “figura” dell’orso viene impersonata da un membro della collettività che si veste di una pelle di quell’animale, corredata di vecchi campanacci e con in testa una “mostruosa” testa, mentre lunghe catene vengono trattenute ai capi dalle “guardie” in costume di contadini siciliani. Durante il percorso la maschera dell’orso si spinge spesso tra la folla degli spettatori compiendo vezzi e provocazioni varie, stimolando così l’allegria del pubblico. La mascherata si compone anche di un ricco corteo nobiliare di dame e cavalieri, il Principe e la Principessa vestono in stile belle époque e assumono un atteggiamento fiero da parata. Numerose sono poi i paggi, i valletti, le damigelle che accompagnano la corte principesca. Il tutto viene arricchito da maschere carnevalesche diverse, dal complesso “canterini” in costume e dalla banda musicale. La manifestazione, che ha inizio alle ore 14:00 del martedì del Carnevale, ha termine verso le ore 19:00 con una serie di danze collettive, cui partecipa anche il “feroce orso” che non si risparmia di abbracciare le signore presenti.

Rodì Milici (Me)

I misi ‘i ll’annu
Nel variopinto microcosmo carnevalesco della provincia di Messina, I Mesi dell’Anno di Rodì Milici, si configurano come uno dei più interessanti e singolari cerimoniali per le sue esclusive e indubbie valenze simbolico-rituali. Essi rientrano, al pari dell’Orso di Saponara, nella tipologia dei Carnevali “strutturati”, quelli che prevedono una prescrittivi e inderogabile forma rappresentativa. Più in particolare, nel caso di Rodì Milici, si fa anche riferimento ad un copione, dove sono riportate le “parti” che ogni singolo Mese, il Re, il Poeta e il Borghese – questi i protagonisti del cerimoniale devono interpretare, nel rispetto di un modello recitativo-declamatorio, affine a quello un tempo usato dai cantastorie e dagli opranti. I mesi dell’Anno vantano, o per lo meno così riferisce la tradizione, un’origine storica ben precisa. Sembra, infatti, che sia stato il poeta Don Peppe Trifilò, nel 1880, a introdurre la rappresentazione in paese, prendendo a modello un’analogo rituale in uso nel catanese. I Mesi dell’Anno si configurano come una “forma drammatica di matrice popolare connessa al ciclo calendariale, sorta di profezia o almanacco drammatizzato, rappresentazione enigmatica dell’evento stagionale”, dove è possibile leggere la rifondazione carnevalesca del Tempo mirata ad esorcizzare i rischi connessi ai vari passaggi mensili, a partire dalla rinascita della vita vegetale in primavera. La rappresentazione ha luogo nelle prime ore della domenica e del successivo martedì Grasso. I dodici mesi distinti da un mascheramento referenziale allegorico, realizzato con soluzioni povere ma di grande efficacia visiva ed evocativa, un tempo in groppa a degli asini e oggi su cavalli, anche loro bardati a festa, e accompagnati dai loro attendenti, giungono in piazza. Qui, a turno, con fare minaccioso si rivolgono al Re e, dopo, avere vantato i privilegi insuperabili che recano al benessere della comunità chiedono, nella provvisoria inversione dei ruoli che mette in crisi l’autorità costituita, in maniera perentoria ed esclusiva la corona, espressione massima del potere. Spetterà al Poeta, alla fine della appassionante perorazioni dei Mesi, il compito di ricomporre l’insanabile conflitto, ristabilendo così le consolidate certezze del vivere quotidiano. Il Re, dal canto suo, invita alle danze l’inquieto corteo dei Mesi. La parte finale del copione, che chiude e suggella il cerchio allegorico del cerimoniale, è recitata dal cosiddetto Borghese, una sorta di io narrante, identificabile con l’autore dei versi, che esalta la figura del Re e non solo quella allegorica, ma anche quella storica.

Novara di Sicilia (Me)

Il gioco del Maiorchino
Il Carnevale a Novara di Sicilia è dominato dal “Giuoco del Maiorchino”, “’a Maiurchea” (varietà di formaggio pecorino stagionato). Si tratta di una prova di abilità che consiste nel far ruotare, con delle corde, forme di formaggio Maiorchino per circa un chilometro. Il lancio richiede forza, esperienza e velocità. Vince infatti la squadra (composta da tre giocatori) che taglia per primo il traguardo (‘a serva), impiegando il minor numero di lanci. Il gioco, risalente alla prima metà del Seicento, era diffuso un tempo anche in alcuni centri dei Nebrodi e dei Peloritani. A Novara di Sicilia, il martedì grasso, in occasione della competizione legata al Maiorchino, viene allestito un ovile con pecorai che preparano “a vista” ricotta e formaggio (‘a tuma) da distribuire ai visitatori insieme ai maccheroni di casa conditi con sugo di maiale e cosparsi con grattugiato dello stesso Maiorchino. Si tratta, insomma, di coniugare il giuoco gestito da una categoria di lavoratori, con l’abbondanza e la bontà del cibo. In questo senso, il rituale carnevalesco viene rispettato pienamente nel senso della “crapula” come propiziatrice di benessere collettivo.

Termini Imerese (Pa)

U Nannu e a Nanna
U Nannu e la Nanna sono presenti nel carnevale di Termini Imerese in forma di antichi mascheroni in cartapesta. Si tratta di due maschere storiche che costituiscono il trait d’union fra la memoria plurisecolare del personaggio che rappresenta il Carnevale di Sicilia, accompagnato dal personaggio aggiunto della Nanna, e la tradizione più recente dei carri allegorici che costituiscono comunque un grande momento di attrazione e di partecipazione diretta delle maestranze locali. Le dimensioni delle due maschere protagoniste (superiori a quelle standard dei fantocci individuabili in altre aree della Sicilia), e il materiale in cartapesta che le caratterizza, lasciano comprendere l’evoluzione e l’adattamento delle due figurazioni. Un tempo l’arrivo dei due personaggi carnevaleschi avveniva presso la stazione ferroviaria o al porto o al ponte della “lavata lana”. Il loro ruolo era quello di portare buon umore alla cittadinanza. Oltre a partecipare al grande corteo dei carri allegorici, il Nannu e la Nanna chiudono i festeggiamenti, il martedì, con il rituale della lettura del testamento e con “‘a bruciatura di ‘u Nannu”. Il testamento, letto dalla figura del “notaio”, fornisce l’occasione per ironizzare sui difetti dei potenti della città.

Sciacca (Ag)

Peppe Nappa
Affermatosi in Sicilia nel XVI secolo con la nascita della Commedia dell’arte, come molte maschere carnascialesche (Arlecchino e Pulcinella per esempio), essa deriva dalla tipizzazione di maschere del teatro comico romano. Beffardo, pigro ma capace di insospettabili salti e danze acrobatiche, goloso ed insaziabile, ricopre abitualmente nelle trame il ruolo del servitore. Ama stare in cucina, o ronzare intorno alla cucina, annusandone deliziato i profumi, e il cibo è la sua passione. Il costume è composto da una casacca e dei calzoni azzurri, entrambi molto ampi e troppo lunghi, ed un cappellino di feltro bianco o azzurro su una calotta bianca. Il suo nome deriva da “nappa”, “toppa” in siciliano. Peppe Nappa viene adottato da Sciacca come maschera del suo antichissimo carnevale saccense negli Anni Cinquanta per volontà del senatore Molinari. Sin da allora la maschera simbolo del carnevale di Sciacca viene rappresentato su un carro allegorico fuori concorso e apre annualmente la sfilata carnascialesca, diventando simbolicamente sindaco della città durante i giorni di festa. Al passaggio del carro di Peppe Nappa vengono distribuiti panini con salsiccia, caramelle, vino, aranciata e prodotti tipici del paese. L’ultima sera è un momento sacro per i cittadini, dopo la fine della sfilata ci si raduna tutti davanti al palco in piazza Scandaliato e viene fatto il famoso rogo del carro di Peppe Nappa atto finale della manifestazione.

Salemi (Tp)

I Scalettari
I “Giardinieri” di Salemi indossano un vestito ottocentesco in velluto alla maniera dei burgisi. Sul capo hanno un cappello di paglia con numerosi lunghi nastri multicolori. Recano in mano un attrezzo a pantografo che, in estensione, raggiunge la lunghezza di circa cinque metri. In cima ad esso è fissato un gancio che consente di porgere al pubblico caramelle, dolciumi vari e, sopratutto un tempo, mandarini e limoni. Questa mascherata è transitata nell’entroterra della Sicilia occidentale da Palermo, dove è presente, nei secc. XVIII e XIX la figura carnevalesca dello scalittaru. A Salemi la maschera è molto diffusa, e ancora oggi è costume attendere ai balconi l’arrivo dei “Giardinieri”, che riescono col pantografo a far pervenire il dono fino al primo piano delle case. Si attua in questo modo una delle forme rituali più diffuse del carnevale, ossia quello del donare, come forma propiziatoria di benessere e di abbondanza. La presenza dei nastri multicolori sul cappello della maschera testimonia, d’altro canto, l’appartenenza del rito al tempo dell’inizio del nuovo ciclo staginale, essendo la molteplicità dei colori simbolo della varietà cromatica dei prodotti della terra all’approssimarsi della primavera.

Cattafi (S. Filippo del Mela) (Me)

U Scacciuni
Cattafi era anticamente un casale; oggi è invece una frazione di San Filippo del Mela, grazioso centro in provincia di Messina. È qui che ogni anno a carnevale fa la sua apparizione per le strade la maschera di “U Scacciuni”. Lunghi cappelli a cono, vestiti variopinti con gonnellino, ed una miriade di nastri colorati, caratterizzano l’abbigliamento di questa singolare figura tipicamente autoctona. U Scacciuni impersona un uomo coraggioso, ed il suo costume simboleggia quasi un bottino di guerra, volendo con esso rappresentare i saraceni sconfitti. Esso si rifà infatti ad un episodio della metà del XIV° secolo allorchè un gruppo di valorosi contadini del posto si battè con coraggio riuscendo a respingere una invasione turca. Quello di Cattafi è tra i più antichi carnevali di Sicilia; pare infatti che travestirsi da Scacciuni fosse una pratica già in voga nel ‘700. Il carnevale cattafese richiama ogni anno numerosi spettatori attratti proprio dalla originalità dell’evento.

Balestrate (Pa)

Il ballo dei Pastori
La tradizione più antica di Balestate, strettamente legata al Carnevale, è il Ballo dei Pastori o Contradanza Mascherata. L’origine di questo ballo non è databile anche se si è appurato che esso esisteva già agli inizi del secolo scorso. Il nome è legato ad una leggenda tramandatasi oralmente da una generazione all’altra. Si dice che, nei tempi antichi, il carnevale si festeggiasse in due giorni: domenica e lunedì e un gruppo di pastori non riuscisse mai a partecipare ai festeggiamenti perché il padrone del gregge non li lasciava mai liberi. Un anno riuscirono ad essere liberi il martedì, ma giunti in paese, seppero che ormai la festa era passata. Decisero allora di festeggiare il carnevale a modo loro indossando abiti femminili e scatenandosi in contradanze per tutto il paese. Da allora il carnevale ebbe un giorno in più che fu chiamato lu jornu di lu picuraru. Da qui il nome dato al ballo. Il numero dei partecipanti, tutti maschi, varia tra 16 – 20 – 24 elementi, in quanto è legato ad alcune figure di contradanza che si effettuano in quartetti. Le figure sono 10 in cui una, la cosiddetta “grascé” serve a legare le altre e si effettua ogni volta che si passa da una figura all’altra. Il ritmo musicale è molto simile alla tarantella. Le coppie sono formate dalla dame e dallo chevalier (fra loro usano tuttora chiamarsi così) e indossano abiti femminili: gonna lunga, ampia e multicolore indossata sopra mutandoni di pizzo lunghi fin sotto al ginocchio, calzettoni bianchi, camicetta elegante orlata di pizzo, guanti bianchi, cappello da donna dal quale si diparte un velo. Legata ad un polso una borsetta o sacchetto con dentro dei sacchetti da offrire agli spettatori e su una o ambedue le gambe una fettuccia di cuoio con una ventina di campanelli (ciancianeddi). Ciò che distingueva la dame dallo chevalier era il fatto che la prima portava sulle spalle una pelliccia di pecora ed un largo nastro di raso al cinto mentre lo chevalier portava la stessa pelliccia a tracolla e due larghi nastri di raso si intersecavano sul petto e spalle e si allacciavano al nastro del cinto. Il primo ballo veniva eseguito davanti la casa di chi comandava la contradanza, il secondo davanti la caserma dei carabinieri a viso scoperto affinché il comandante , che aveva la lista dei partecipanti, li riconoscesse. Poi andavano in giro per il paese a ballare davanti le case dei nobili che, in cambio, offrivano un bicchiere di vino a tutti.

Corleone (Pa)

I Riavulicchi
Simbolo di peccato e di trasgressione quella del diavolo è probabilmente la maschera più adatta al carnevale; e proprio quella del diavolo anzi del riavulicchiu è infatti la maschera simbolo del carnevale di Corleone in provincia di Palermo. Si muove da solo o in gruppo saltando e ballando e coinvolgendo tutti i presenti in questo “vortice peccaminoso”. U riavulicchiu veste di rosso ed ha ovviamente le corna ed una lunga coda; cuciti nell’abito inoltre decine di sonagli (i ciancianeddi) che ad ogni movimento tintinnano rumorosamente con il solo scopo di animare la festa e portare allegria. Nel corleonese quella del diavolo è una maschera in uso da secoli e della cui presenza non si conoscono però bene le origini. Alla fine comunque anche nel carnevale di Corleone fa la sua comparsa la ben più tradizionale figura sicula del nannu che portato a spalla dagli stessi diavoli viene condotto al rogo a conclusione della festa.

Bisacquino (Pa)

I Domino
Il Carnevale Bisacquinese affonda le proprie radici almeno alla fine del Seicento, come comprovato da alcuni recenti documentazioni, per cui esso è da ritenersi di gran lunga il più antico della Sicilia. In particolare, la storia del Carnevale Bisacquinese attraversa tre distinte fasi. Una prima fase è dominata dal ballo nei circoli che si affacciano sulla piazza principale del paese: in essi, ogni sabato e domenica dopo le 22, i ballerini affollano le sale e, al suono di qualche orchestrina, si lanciano in lisci e contradanze fino alla tradizionale sosta al buffet. La maschera principale è il “domino”, una tunica scura che copre la persona fino ai piedi e munita di un cappuccio sulla testa che impedisce di riconoscerla, sulle cui origini non esistono documenti certi: tuttavia, è innegabile la sua matrice islamica, sia per la sua forma identica a quella del “burka” o “caffettano” islamico, sia per le origini arabe di Bisacquino, testimoniate dal nome (“Busekuin” in arabo), dalla conformazione urbanistica del centro storico e dagli usi dialettali, culturali e tradizionali. Vestita con il “domino”, in questa occasione la protagonista è la donna che, operando un vero e proprio capovolgimento di ruoli, passa da “oggetto” dell’uomo ad elemento attivo e dinamico, poiché è lei ad invitare l’uomo a ballare, guidandolo nei vari balli. Il Carnevale Bisacquinese è oggi una delle feste più vive dell’intero circondario e uno dei patrimoni culturali di maggiore interesse.